giovedì 22 gennaio 2015

USCIRE O NO DALL’EURO


Data la grave crisi del Paese, a causa delle fallimentari ricette neo-liberiste, imposte da un' Europa, dominata dai poteri forti, sui quali vado scrivendo da tempo su questo blog  ed altrove,    credo sia utile cominciare anche  a discutere  e confrontare tesi diverse  sui vantaggi o svantaggi  di una uscita dell’Italia dall’euro. Personalmente ritengo che la cosa sia auspicabile e possibile, ma credo che ognuno debba farsi liberamente  un minimo di informazione prima. 


Nonostante il fallimento delle politiche neo-liberiste e del rigore, continua infatti la  sudditanza e mancanza di coraggio politico della nostra classe politica al governo. I degradanti "compiti a casa" riproposti anche da Renzi, dopo i disastri di  Monti e Letta, corroborati da ricette fallimentari e di macelleria sociale ci hanno portato su una  strada suicida per il Paese.


Evito di trattare la questione dal punto di vista economico perchè non ne ho le competenze specifiche, ne' politico perchè ne ho già parlato in passato  qui ed altrove e trovo più corretto limitarmi a riportare i pareri di esperti.

Cominciamo col dire che, pur con posizioni diverse , 7 Premi Nobel: P.Krugman, M.Friedman, J.Stigliz, A.Sen, J.Mirrless, C.Pissarides, J.Tobin,  considerano l’Euro, per come è stata costruita, una camicia di forza taroccata  ed insostenibile per l’Italia, sia per la mancanza di una garanzia bancaria europea, sia per l'assenza   di un parlamento sovrano, di strategie sulla crescita e per la sua costruzione centralizzata, burocratica che di fatto impone manovre  rigide, destinate ad impoverire i cittadini a favore di banche e interessi finanziari.

 J.Mirrless afferma che per l’Italia sarebbe conveniente uscirne riacquistando la propria sovranità monetaria per espandere la massa monetaria in circolazione o attraverso la svalutazione ..


“ L’eventuale uscita dall’euro” per  Merrill Lynch, “oltre a rendere possibile, attraverso la svalutazione, il riequilibrio della bilancia commerciale e in prospettiva una crescita guidata dalle esportazioni, avrebbe effetti benefici anche sui tassi di interesse, poiché i mercati sarebbero rassicurati dal ritorno alle monete nazionali, fattore che ridurrebbe la possibilità di un default”

Ecco, di seguito altre valutazioni, di economisti contrari alla nostra uscita dall’euro e  sulle possibili conseguenze :

“LA FUGA DI CAPITALI. L'uscita da un'unione monetaria, con l'adozione di una nuova valuta, è un passaggio tecnicamente difficile che deve avvenire con un'operazione-lampo, gestita nell'arco di poche ore e accompagnata dal blocco provvisorio dei movimenti di capitale. Così è avvenuto, per esempio, nellaRepubblica Ceca e in Slovacchia che negli anni '90, dopo la caduta dei regimi dell'est, avevano mantenuto per qualche anno una traballante unione monetaria. Se l'operazione di uscita dall'euro non viene gestita bene e non rimane confinata nel segreto delle stanze diplomatiche, si rischia una fuga di capitali all'estero. Non appena sarà chiara la volontà dell'Italia di abbandonare la moneta unica, molti investitori saranno infatti spinti a darsela a gambe, spostando le attività finanziarie detenute nel nostro paese verso nazioni con una valuta più forte.
IL DEBITO. Oggi tutto il debito pubblico italiano ha un valore espresso in euro (circa 2mila miliardi). Cosa accadrebbe se il nostro paese adottasse una nuova valuta al posto della moneta unica? I possessori dei titoli di stato (soprattutto gli stranieri che detengono ancora più di un terzo del nostro debito), difficilmente accetteranno di convertire i loro crediti in una nuova moneta che vale meno. In altre parole, chi possiede i Buoni del Tesoro pretenderà che vengano ripagati in euro (cioè nella valuta in cui sono stati emessi), anche a costo di affrontare delle cause legali contro lo stato italiano. Dunque, è probabile che il nostro paese sia comunque costretto a rimborsare l'attuale stock di debito in euro, mentre il suo prodotto interno lordo (pil) sarà espresso in una nuova moneta che vale meno. In questo modo, il rapporto tra debito pubblico e pil (che oggi è poco sotto il 130%) rischia di schizzare verso l'alto alla velocità della luce, magari per superare il tetto del 150%.
LE IMPORTAZIONI. Spesso i fautori dell'uscita dall'euro mettono in evidenza i potenziali benefici che il nostro paese avrebbe adottando una moneta svalutata, come la vecchia lira. In questo modo, infatti, le nostre esportazioni riprenderebbero a viaggiare con il turbo, acquistando grande competitività sui mercati. Ci si dimentica, però, di due cose: innanzitutto, l'export made in Italy non va affatto malissimo e oggi è tornato ai livelli precedenti la crisi economica, nonostante l'esistenza dell'euro. Inoltre, l'Italia non è soltanto una nazione esportatrice ma anche un grande importatore di materie prime. Il deficit energetico del nostro paese, per esempio, è attorno a 65-70 miliardi a causa dell'import di gas e petrolio, il cui valore sui mercati internazionali viene espresso in dollari e si impennerebbe all'improvviso se l'Italia avesse una moneta svalutata. Occorre ricordare, infine, che il nostro paese ha la seconda industria manifatturiera d'Europa, che eccelle in alcuni segmenti come la meccanica industriale, particolarmente bisognosi di materie prime.
L'INFLAZIONE E I TASSI D'INTERESSE. Non appena un paese decide di svalutare la propria moneta, ovviamente corre il rischio di una fiammata dell'inflazione a causa di un maggior costo delle materie prime importate, che indirettamente finiscono nel carrello della spesa. Quando i prezzi aumentano troppo, inoltre, la Banca Centrale di un paese tenta spesso di fermarli aumentando anche i tassi di interesse, cioè il costo del denaro. Al momento, una possibile fiammata inflazionistica non viene considerata tra le conseguenze più gravi dell'uscita dall'euro anche se non va mai dimenticato ciò che è già successo nella storia italiana, soprattutto negli anni '70  e '80. In passato, il nostro paese ha effettuato più volte delle svalutazioni competitive della lira, guadagnandosi però un triste primato: quello di avere dei tassi d'interesse e una crescita dei prezzi altissimi, entrambi a due cifre.
In conclusione, secondo i teorici della MMT tutti i discorsi che facciamo da anni sul livello troppo alto di debito pubblico e del deficit statale sono non-issues. Chiacchiere ideologiche per confondere i cittadini. All’inizio del Novecento, il deficit pubblico americano era del 10%. Era salito al 120% dopo la fine della seconda guerra mondiale e sceso nuovamente al 34% nel 1974, come ricorda Federico Rampini in un articolo su «Repubblica». Se uno mette in relazione debito pubblico e crescita o occupazione sembra non esserci nessun nesso.

Bisogna dire che è sorprendente come la MMT spieghi bene tutto quello che è successo negli ultimi vent’anni in Italia. Tutte le manovre economiche di austerity condotte a partire dagli anni Novanta, quando abbiamo deciso di voler entrare nell’euro, sono state manovre che hanno prodotto surplus primari nel deficit pubblico e quindi hanno sottratto liquidità al settore non-pubblico. Tutte le manovre di austerity per restare nell’euro ora producono lo stesso effetto. Tutti i dati indicano che questa è stata la direzione. Tra il 2000 e il 2013 il PIL dell’Unione Europea è cresciuto di circa il 16%. Quello italiano di circa il 2%. A questo punto per l’Italia non ci sono più molte scelte: o riusciamo a influenzare le politiche europee, soprattutto quelle monetarie, oppure siamo condannati a una lenta agonia.”

Paolo Barnard  invece “collega la MMT con il fatto che, poiché oggi noi non possiamo più stampare moneta (solo la BCE può farlo), se noi volessimo adottare politiche monetarie espansive come quelle suggerite dalla MMT ci converrebbe uscire dall’euro e tornare alla lira.
In sintesi, per quanto riguarda l’euro, la via auspicata dal manifesto è la seguente: l’Italia annuncia unilateralmente che non rispetterà più i trattati europei sinora firmati e procede a un ritorno alla lira per quanto riguarda il pagamento delle tasse e i pagamenti interni, ma i depositi bancari e i prestiti in euro potrebbero rimanere in euro (le banche convertirebbero i depositi da euro in lire solo su richiesta dei depositanti). La Banca d’Italia concederebbe prestiti a zero interessi allo Stato. Il debito dello Stato in euro verrebbe onorato nei tempi decisi dall’Italia. L’economia sarebbe rifondata sul principio dell’esclusivo Interesse Pubblico, che mira essenzialmente alla creazione di una piena occupazione per tutti…”

Ecco invece su questa questione l’analisi Dell’economista  Elido Fazi:

“1)     condivido l’epigrafe messa ad apertura del documento, una citazione da Paul Krugman: «Adottando l’euro, l’Italia si è ridotta allo stato di una nazione del terzo mondo che deve prendere in prestito una moneta straniera, con tutti i danni che ciò implica». È una giusta conclusione nota agli esperti da anni.
2)     Sono d’accordo che, se avessimo ancora la lira, non ci sarebbe nessun pericolo di default. La Banca d’Italia potrebbe, con un semplice click di computer, stampare moneta, e il problema non si porrebbe.
3)     Anch’io credo che se l’Italia avesse potuto fare ricorso alla svalutazione competitiva, oggi le condizioni economiche sarebbero probabilmente migliori.
Detto questo, devo dire che mi sembra una forzatura credere che l’area dell’Eurozona sia il risultato di un disegno germanocentrico per rafforzarsi a spese dei paesi più deboli come Spagna e Italia. Certo, oggi siamo oggettivamente in una situazione in cui l’unico paese a essere favorito dallo status quo è la Germania, che ha tassi vicino allo zero sul suo debito (senza neanche aver dovuto fare politiche di quantitative easing) e un tasso di cambio dell’euro sottovalutato per la sua economia (se non fosse nell’euro il marco oggi varrebbe come minimo 2 dollari). E raddrizzare la situazione non è facile se i tedeschi s’incarogniscono a portare avanti le loro politiche di egoismo economico e trascurano di curarsi dei problemi dei paesi più svantaggiati. Non credo a nessun complotto perché al tempo il progetto dell’euro fu duramente ostacolato dalla Bundesbank e andò avanti solo per la volontà politica di Helmut Kohl, che non era cosciente di come si sarebbe evoluto e che non poteva certo prevedere la crisi del 2008.
Non condivido neanche le tesi contenute nello studio della Fed del 2002 “L’euro: non è possibile, è una pessima idea, non durerà” citato nel manifesto. È vero che l’euro è un esperimento mai fatto prima nella storia, cioè una moneta senza dietro uno Stato, ma chi ha seguito la gestazione dell’euro dall’inizio ha sempre avuto ben chiaro che la maggior parte delle istituzioni e degli economisti americani ha sempre cercato di delegittimare teoricamente la costruzione dell’euro.

Riporto un passo delle memorie di Guido Carli, il ministro del Tesoro italiano che mise la sua firma sul trattato di Maastricht:
Già durante il mio primo viaggio negli Stati Uniti, al seguito del presidente De Gasperi, ebbi modo di constatare insieme a Menichella che settori influenti della comunità finanziaria erano acremente ostili ai vincoli alla sovranità monetaria degli Stati Uniti che derivavano dagli statuti di Bretton Woods. [...] Venti anni più tardi quella stessa comunità finanziaria salutò con gioia lo sganciamento del dollaro dall’obbligo di convertibilità in oro, come una riconquistata libertà di emettere dollari senza contropartita alcuna. La natura di valuta di riserva internazionale del dollaro è sopravvissuta a quegli istituti che le attribuivano la dignità di uno strumento in qualche modo sottoposto a un controllo esterno, neutrale, rappresentato appunto dall’oro. Caduto quel vincolo, il potere del dollaro si è manifestato nella sua natura puramente egemonica. Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario verso il resto del mondo. [...] Dico questo perché deve essere presente alla coscienza degli europei che cosa il Trattato di Maastricht rappresenta veramente. Io non vedo in Europa tracce di questa coscienza. La vedo invece negli Stati Uniti, dove infatti, come un sol uomo, gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interessi della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico.

Ma soprattutto non sono assolutamente d’accordo con la tesi principale del manifesto, e che cioè all’Italia converrebbe tornare al più presto alla lira.

In Italia, nel mondo accademico, questa tesi è portata avanti  invece da  Alberto Bagnai, ecco una sintesi tratta da una  vecchia intervista al Fatto Quotidiano:

“Il teorico (serio) del partito anti-euro: “Uscita dell’Italia dolorosa ma inevitabile”

L'economista Alberto Bagnai cita Krugman e De Growe per spiegare perché al nostro Paese conviene decidere di lasciare la moneta unica prima che siano i mercati a imporcelo.
n realtà, Alberto Bagnai, che insegna politica economica a Pescara e in Francia, pensa cheoccorra uccidere l’euro proprio per salvare l’Europa e non per disfarla: per questo il nostro – allergico tanto al pensiero economico mainstream, quanto ai fulminati della Spectre massofinanziaria alla Paolo Barnard – ha deciso da un paio d’anni di uscire dalla cerchia dell’accademia per divulgare una verità che per lui è semplice quanto evidente: la moneta unica è stato un brutto affare. Per spiegarlo, riempie il suo blog di articoli chiari e divertenti, numeri e riferimenti bibliografici che lasciano poco spazio ai dubbi. Non bastandogli il blog, peraltro, sta organizzando un convegno scientifico a Pescara per il 22 e 23 giugno. Titolo: Euro: manage it or leave it. Le sue teorie sono spesso spiazzanti per i non addetti ai lavori; per questo non gli abbiamo posto domande in senso stretto, ma l’abbiamo costretto a interagire con un ipotetico europeista un po’ naif e sinceramente democratico, le cui informazioni derivino esclusivamente dagli editoriali pubblicati dai due più grandi quotidiani italiani. Ecco il risultato.
L’euro va bene, è che c’è la crisi dei debiti sovrani.
I maggiori economisti internazionali, a partire da Paul Krugman e Paul De Grauwe, non la pensano così. Se il problema fosse il debito pubblico, dal 2008 – quando esplode la bolla dei mutui subprime – la crisi avrebbe colpito prima Grecia e Italia (debito pubblico al 110% e al 106% del Pil). Ma i mercati puniscono prima Irlanda (44%), Spagna (40%) e Portogallo (65%), solo dopo Grecia e Italia. Cosa accomuna questi paesi? Gli squilibri di bilancia dei pagamenti, causati dalla moneta unica,cosa ormai riconosciuta anche dal Fmi, che hanno portato all’accumulazione di debito privato.
Debito privato?
Spiego: se un paese compra all’estero più di quanto venda, dovrà farsi prestare dall’estero la differenza. Un deficit di bilancia dei pagamenti porta così a debiti verso l’estero, prevalentemente privati. Ma perché il resto del mondo continua a far credito? Semplice: per finanziare la vendita delle proprie merci. E’ banalmente il meccanismo in atto tra Cina e Usa. La crisi in Europa esplode quando le banche tedesche, scottate dai subprime, devono rientrare dei loro crediti verso i paesi periferici.
Ma tutti scrivono che il problema sono i debiti pubblici?
A valle certamente. Ma a monte il problema nasce perché le banche – i cui crediti sono i debiti dei privati – hanno prestato largamente, realizzando profitti: quando la crisi economica ha messo famiglie e imprese in difficoltà, lo Stato ha salvato le banche, tassando le famiglie, per via della storia del too big to fail. E ora il debito è pubblico.
Ma Giavazzi e Alesina dicono che è colpa nostra che non abbiamo fatto le riforme.
Forse potevamo approfittare di più del dividendo dell’euro, però è anche vero che nei primi anni il debito pubblico era sceso di oltre 10 punti. La spesa pubblica però non l’abbiamo potuta ridurre di più perché l’euro, penalizzando il nostro commercio, ci sottraeva domanda estera: se avessimo diminuito anche quella pubblica saremmo cresciuti ancora di meno.
Ma la Germania le riforme le ha fatte e infatti va bene: vende pure in Cina.
Intanto non è vero: la bilancia commerciale della Germania con la Cina era negativa ed è peggiorata. Sa, invece, dov’è migliorata? Coi paesi dell’Eurozona, con noi. Questo perché le riforme del mercato del lavoro in Germania si sono tradotte in una sostanziale precarizzazione, volta a comprimere i salari. E’ una svalutazione interna, quella che oggi viene chiesta a noi: non va dimenticato, però, che la Germania per assorbirne il costo sociale fu costretta a violare per prima il Patto di stabilità, sussidiando una pletora di sottooccupati (e quindi, indirettamente, il suo sistema industriale). Ma ora a noi chiede austerità, mentre occorrerebbero politiche di rilancio dell’economia,come riconosce anche l’International Labour Office delle Nazioni Unite.
Comprimere i salari? L’operaio tedesco guadagna il doppio dell’italiano.
In Germania non c’è solo l’operaio strutturato e non c’è solo la Wolkswagen: c’è anche sotto-occupazione, ci sono i mini-job… Risultato: dopo le riforme i salari reali in media sono calati del 6,5%.
L’euro, comunque, l’abbiamo fatto per avere stabilità.
Veramente oggi ci viene detto da illustri protagonisti dell’entrata nell’euro che questa valuta è stata adottata e terrà perché conviene alla Germania.
Conviene anche a noi: dove andavamo con la liretta nel mondo globalizzato…
I manuali di economia ci spiegano che gli agganci a una valuta forte spesso servono a imporre agli attori sociali di un paese ‘disciplina’ con lo spauracchio del vincolo esterno. Pensi a quanto non sono cresciuti i salari italiani in questi anni e a cosa sta accadendo con l’articolo 18, che pare non interessi tanto agli industriali italiani quanto a quelli tedeschi, come ci ha ricordato a suo tempo il nostro premier.
Ormai però siamo dentro e dobbiamo restarci: servono gli eurobond e la Bce deve diventare come la Fed.
Faccio un esempio. In Italia abbiamo sotto gli occhi 150 anni di unione monetaria, politica, fiscale, eccetera, e quali sono i risultati? Il Mezzogiorno è oggi in una condizione di deficit strutturale per 17 punti del suo Pil, che colma con risorse prese dal resto del mondo, fra cui trasferimenti fiscali dal Nord Italia. Ma al Nord non tutti sono contenti. Ecco, se applicassimo a livello europeo questo meccanismo di “unione di trasferimento”, nel Nord Europa si affermerebbero (come sta succedendo) dinamiche politiche “leghiste”, molto pericolose.
Lei non starà dicendo che dobbiamo uscire dall’euro?
Temo sia doloroso ma inevitabile, e dovremmo gestire questo processo anziché subirlo. Non commettiamo l’errore di identificare l’Europa con l’euro. L’euro è solo l’undicesima moneta dell’Unione, quella che funziona peggio: l’Europa c’era prima e ci sarà dopo.
L’uscita dall’euro è una catastrofe. La lira si svaluterà: per comprare la frutta servirà una carriola di banconote.
Si fa molto terrorismo, ma di fatto nel medio periodo il cambio recupera il differenziale di inflazione accumulato col paese di riferimento negli anni del cambio fisso. Così è successo in Argentina, così successe anche all’Italia quando uscì dallo Sme nel 1992. Nel caso attuale, la svalutazione sarebbe attorno al 20%.
E quindi avremo il 20% in più di inflazione…
In realtà tutti gli studi negano ci sia un rapporto diretto tra svalutazione e inflazione: sempre a stare agli studi scientifici, è lecito attendersi un aumento dell’inflazione fra i 2 e i 4 punti (non certo 20!). Le ricordo cosa successe nel ’92 dopo una svalutazione del 20%: l’inflazione scese dal 5 al 4%.
C’è qualche problema, ma ora i tecnici metteranno a posto i conti.
In realtà il governo Monti sta facendo delle scelte tecnicamente sbagliate, che mettono in visibile difficoltà il paese, applicando a noi le ricette che non hanno funzionato in America Latina negli anni 80 e 90.
In maggioranza c’è il Pd che si batte per introdurre elementi di sinistra nelle leggi del governo.
La fiducia nel mercato di certa sinistra è commovente: nessuno sfrenato pensatore liberale e liberista ne ha altrettanta. Però quando la sinistra aderisce a politiche di forte destra, alla fine succede solo una cosa: vince la destra.  

Alcune riflessioni più recenti:

“Perché l’Italia deve uscire dall’Euro: teoria economica e riflessioni
"Polis" esce allo scoperto e con un lungo articolo si dichiara favorevole all'uscita dell'Italia dall'euro-zona. In questa prima parte la riflessione è concentrata sugli aspetti economici

E’ un paio di settimane che questa rubrica gira intorno all’argomento, e forse, a questo punto, tanto vale farecoming out. Cari lettori, penso sia giunto il momento di dire chiaramente che bisogna uscire dell’euro.
Ovviamente non posso motivare la presa di posizione in punta di teoria economica: non perché non mi sia informato quanto più approfonditamente mi fosse possibile, ma perché non ho alcuna autorità in materia; e quindi non sarei considerato credibile, né sarei capace di contrastare efficacemente eventuali obiezioni tecniche. Cercherò semplicemente diriportare quello che ho letto e che più mi convince, soffermandomi in questa prima parte sugli aspetti prettamente economici, la prossima settimana su quelli politici.
PARTE I – L’ECONOMIA
La teoria economica offre abbondanti analisi sul tema dell’Area Valutaria Ottimale (AVO), vale a dire quell’insieme di paesi che possono condividere con successo un regime di cambio fisso, oppure addirittura la stessa moneta. L’Italia è passata attraverso entrambi questi sistemi: siamo stati in un regime di parità di cambio, lo SME, dal 1979 al 1992; e siamo in un’unione monetaria, l’euro-zona, dal 1° gennaio del 1999. Queste esperienze, per molti economisti, sono la prova che:
  1. l’Europa non è un’Area Valutaria Ottimale;
  2. uscire da quest’area valutaria mal intesa sarà inevitabile;
  3. un’uscita “pilotata” sarebbe comunque preferibile, sarebbe relativamente gestibile e nonprovocherebbe danni incalcolabili.
Critici dell’euro furono già in tempi assolutamente non sospetti economisti del calibro di Paul Krugman, Martin Feldstein e Nouriel Roubini: quindi, che nella costruzione dell’euro-zona ci fosse qualcosa che non andava, lo si sapeva già da tempo. Sulle paure legate ai rischi di un’uscita dell’Italia e di una dissoluzione della moneta unica, ho già citato qualche riferimento due settimane fa, da cui si dovrebbe aver realizzato che i costi del processo sono assolutamente sopportabili e che anche la psicologia e le ansie dei mercati sono del tutto gestibili.

Un po’ meno scontato potrebbe essere capire perché “un’altra Europa” non è possibile, perché cioè non si possa riformare il sistema rimanendo al suo interno. Questo discorso si lega alle ragioni profonde di questa crisi, che – come ormai sa chi segue questa rubrica – non dipende dal fatto che per anni abbiamo speso troppo: perché questo semplicemente non è vero.

1. Il segreto di pulcinella: come mai siamo in crisi?

La crisi nasce da uno shock esterno: la bolla dei mutui sub-prime, che è scoppiata negli USA e poi da lì si è ripercossa sui mercati globali. Giunta in Europa la bolla ha impattato contro un’ideologia economica ottusa e un sistema monetario troppo rigido e squilibrato, che ha impedito di contenere gli effetti negativi, e anzi li ha ampliati, creando una spirale recessiva perversa e senza uscita. E’ stato così che gli errori strutturali dell’euro-zona hanno trasformato una crisi finanziaria in una grave recessione continentale; recessione che a sua volta frena la ripartenza dell’intera economia globale. Cerchiamo di capire da cosa dipende l’inadeguatezza del nostro sistema…
Ci sentiamo spesso ripetere il mantra della “competitività”: cioè che oggi bisogna competere, competere e ancora competere. Ed in effetti, a livello microeconomico, l’idea pare dare i suoi frutti: stimola l’innovazione e orienta l’offerta alle esigenze del consumatore. Ma c’è anche un lato negativo: se si accetta la competizione, si dà per scontato che ci saranno si dei vincitori, ma ci saranno anche dei vinti, cioè aziende che chiudono perché hanno perso la sfida.


E’ logico – ed è d’altra parte confermato dalla teoria economica – che non si può essere tutti contemporaneamente i più competitivi,esattamente come non si può arrivare tutti contemporaneamente primi. Il problema, si dice, si potrà riassorbire, perché i lavoratori che perdono il posto potranno essere riassunti là dove la competizione è stata vinta. Tuttavia, se si traspone lo stesso scenario a livello macroeconomico, il risultato è affatto diverso: i vinti non sono più aziende, ma interi paesi che si impoveriscono, paesi che, con la stessa logica, per riassorbire la disoccupazione dovrebbero lasciar emigrare i loro abitanti.Cosa che in Europa non è successa.



Quando sentiamo dire che “i giovani sono mammoni”, che “non si spostano da casa”, che “non hanno sfruttato le possibilità dell’Europa”, in realtà non si tratta solo di moralismo da quattro soldi: chi lo dice sta infatti sfogando la frustrazione per il fallimento annunciato di un presupposto centrale dell’Unione Europea: la mobilità intracomunitaria dei lavoratori. Che non si è mai realizzata non solo perché abbiamo differenti lingue, differenti culture, differenti storie, differenti sensibilità e differenti obiettivi; ma anche perché – più prosaicamente – all’interno dell’UE si trasferiscono pochissime risorse, non si condivide lo stesso debito, abbiamo un diverso mercato del lavoro, un diverso sistema giudiziario, un diverso apparato burocratico e una diversa fiscalità.
L’euro non ha fatto altro che ampliare gli squilibri commerciali tra i paesi aderenti, grazie anche all’atteggiamento mercantilista della Germania, che ha praticato deliberatamente la scelta di contenere il suo tasso d’inflazione reale sotto la media europea per essere più competitiva con l’estero (se i prezzi degli altri crescono più velocemente, i miei diventano più convenienti e io vendo di più). Così la Germania ha accresciuto le esportazioni, realizzando un surplus strutturale. Per contenere il tasso d’inflazione è bastatocomprimere i salari, impedendo ai consumi di decollare: un dato di fatto che – per inciso – smonta il mito della superiorità produttiva tedesca…”

“Le valute, come qualsiasi altro bene sottoposto ad un regime di libero mercato, si apprezzano e si deprezzano non solo perché – come spesso si sente dire – “quando eravamo scorretti, praticavamo la famigerata svalutazione competitiva”, ma più frequentemente perché quando l’export di un paese si riduce, si riduce anche la domanda della sua moneta. I PIIGS, essendo in costante deficit, hanno finanziato il loro disavanzo importando capitali privati dal resto dell’Europa: sono diventati quindi importatori netti di capitali (avete presente il mantra degli “investimenti esteri”?). Ovviamente le banche del Nord erano ben felici di prestare ai loro partner dell’euro-zona, perché non c’era il rischio di svalutazione e si poteva godere degli alti tassi di interesse (attenzione a non fare confusione: siamo nel settore privato bancario, e lo spread, che all’epoca era praticamente a zero, non c’entra!). Quando è scoppiata la bolla finanziaria, le banche sono andate in sofferenza, l’epoca del credito facile è finita, lo Stato è dovuto intervenire per sostenere l’economia e il debito pubblico è cresciuto. Pertanto è evidente che è stato il credito privato a creare il problema, speculando sui prestiti a paesi in deficit commerciale e gonfiando così una bolla costruita sul mito dell’incrollabilità dell’euro.
Le esportazioni tedesche sono partite non verso la Cina (come tutti i paesi, anche la Germania è in deficit rispetto alla Cina), ma in gran parte verso il resto dell’Unione Europea: si è creato così al suo interno un gruppo di paesi che, avendo perso la sfida dell’export a causa della minore inflazione tedesca, si sono ridotti al ruolo di importatori. E basta dare un’occhiata aidati dell’Eurostat per scoprire che tra questi paesi importatori, quelli che non avevano l’euro nonsono andati in crisi: mentre quelli che lo avevano…  sono diventati PIIGS.
La crisi sta tutta qui: essa ha colpito i paesi in costante deficit commerciale che hanno la moneta unica. Chi non la ha adottata, infatti, ha svalutato la propria valuta e ha potuto così recuperare un po’ di competitività.
Riassumendo: l’Unione di fatto non esiste(come ha capito anche chi recita il il mantra del“più Europa”) e il problema dell’euro-zona è un mix micidiale tra:
1) rigidità del cambio, che esaspera gli squilibri commerciali e rende le varie economie incapaci di difendersi da shock esterni svalutando;
2) politica mercantilista della Germania, che ha costruito la propria ricchezza sull’impoverimento delle economie dei paesi a cui vendeva le merci e prestava i capitali (lo scrisse persino il Sole 24 Ore l’anno scorso, sottolineando proprio la differenza dei saldi commerciali tra noi e i tedeschi prima e dopo l’euro).
2. Cosa succederà e cosa dovremmo fare
Ormai abbiamo capito, dunque, che non è certo lasciando il quadro immutato e con la sola austerità che usciremo dalla crisi: persino chi sostiene che dobbiamo restare a tutti i costi nell’Unione Europea capisce che il piano di salvataggio non salverà nessuno. E il motivo è semplice: se un paese è in crisi e lo Stato taglia la spesa, ci saranno ancora meno consumi e quindi ci sarà ulteriore recessione. Prima o poi, dunque, la frustrazione sociale per una ripresa che non si riesce ad intravvedere diventerà insostenibile. Oppure un altro paese debitore finora toccato solo marginalmente dalla crisi, ma che presto dovrà vedersela “con l’Europa”, vale a dire la Franciapotrebbe decidere autonomamente di uscire. O forse saranno altri a fare il primo passo: magari gli stessi Tedeschi. Una cosa è sicura: se un progetto è insostenibile, prima o poi perderà il sostegno e crollerà.
D’altra parte modificare il quadro di regole che ci sta stritolando è impensabile, perché gli squilibri politici ed economici sono troppo accentuati e gli interessi dei vari paesi completamente divergenti. Nell’immediato, ad esempio, avremmo bisogno di maggiore inflazione in Germania: cioè di un aumentato potere d’acquisto dei salari tedeschi, che “tiri” i consumi e favorisca le importazioni da paesi esteri come il nostro: cioè quel ruolo di “locomotiva d’Europa” che finora la Germania ha avuto solo sulla carta. Poi avremmo bisogno di una forma di condivisione del debito per calmierare i tassi d’interesse; e naturalmente dovremmo abolire il fiscal compact, consentendo ai singoli Stati di finanziare con la spesa pubblica la loro ripresa. A quel punto potremmo cominciare a ricostruire l’Europa da capo, all’insegna di una vera integrazione. Se ci fosse la volontà, si potrebbe fare così: ma se ci fosse la volontà, lo si sarebbe già fatto.
Sono passati cinque anni, abbiamo devastato un paese come la Grecia, aumentato la povertà e la disoccupazione in Spagna, Portogallo e Italia; e l’ultima volta che l’UE si è riunita per prendere una decisione sul bilancio comunitario – che corrisponde a circa l’1% del PIL – il risultato è stato l’ennesimo nulla di fatto. Dobbiamo concludere allora che per il Nord Europa la moneta unica è stata semplicemente un’occasione di guadagno e che non sono intenzionati a rimetterci soldi loro per salvarla. Se adesso la tirano tanto per le lunghe, è solo perché non sanno decidersi a rinunciare alla gallina dalle uova d’oro. E’ chiaro che il capitalista tedesco non vuole rinunciare ad un assetto su cui ha lucrato per lungo tempo: ed è altrettanto chiaro che il lavoratore tedesco non vuole fare sacrifici per noi, perché gli hanno detto che è tutta colpa del sud sprecone che non ha voglia di lavorare.
Insomma, è nostro interesse non restare un minuto di più in un sistema destinato comunque a sicura fine, che nel frattempo penalizza le nostre industrie, i nostri redditi e la nostra residua autonomia politica.
3. Conclusione
Questa è, a mio giudizio, la teoria più convincente sulla crisi dell’euro che ci sia in circolazione, ed è sostenuta, tra gli altri, da economisti quali Fabrizio Tringale, Claudio Borghi, Alberto Bagnai. Se non altro è l’unica in base alla quale i manuali di economia, le opinioni dei grandi economisti, i dati macroeconomici e i comportamenti dei singoli attori in campo assumono un senso ed una coerenza. Va da sé che, non essendo io un economista, se un giorno dovessi essere convinto da una spiegazione di tipo diverso, non mancherò di riportarlo. Detto questo possiamo muovere verso il corollario più inquietante: le implicazioni politiche
Andrea Giannini “



Pareri dunque, come si vede,  molto vari e  spesso divergenti  su cui sarebbe opportuno un confronto chiarificatore .
Chiudo con  una sintesi sui vantaggi e svantaggi  di una nostra uscita dall’euro  avvertendo che ovviamente si tratta di  pareri che certo non esauriscono la complessità del dibattito. Personalmente ritengo che il cittadino comune e di buon senso al di la’ delle tesi contrastanti di economisti di diverse scuole , debba riflettere sul dato storico che dalla crisi del 29 non si usci’ certo con politiche di rigore ma di tipo Keynesiano e che, alla fine, non occorra essere esperti economisti per capire i risultati disastrosi  in chiave di privazione di diritti e danni economici prodotti  al paese dalla nostra permanenza in questo tipo di Europa . Se  queste politiche non cambieranno da subito radicalmente credo che i danni di una nostra permanenza nell’euro sarebbero il fallimento totale del paese ,dunque a quel punto meglio percorrere altre vie  prima che sia troppo tardi.

Vantaggi dell'uscita dall'Euro
  • Svalutazione. Al di fuori della zona Euro i paesi hanno la possibilità di svalutare la valuta nazionale per rilanciare l'economia, riducendo in tal modo gli effetti reali della crisi economica sull'economia La svalutazione traina laproduzione per l'esportazione. Occorre comunque precisare che la svalutazione aumenta anche il costo delle materie prime importate (es. petrolio) causando indirettamente un rincaro generalizzato dei costi di produzione delle imprese nazionali e quindi l'aumento dei prezzi di vendita delle merci e dei servizi.
  • Maggiore solvibilità nazionale e bancaria. Al di fuori della zona Euro l'onere degli aggiustamenti del debito pubblico grava sui creditori esteri. Tuttavia, questo effetto si traduce anche in una crescita del rischio per gli investitori e, di conseguenza, anche della crescita del tasso di interesse dei titoli di stato. In altri termini, per collocare i titoli di stato gli investitori chiederebbero dei tassi di rendimento più alti sugli stessi. Ad esempio, dopo la svalutazione della Lira nel 1992 il tasso di rendimento sui BOT è cresciuto fino al 17%.
  • Crescita economica. In situazione di crisi economica i paesi fuori dalla Zona Euro sono in grado di affrontare la congiuntura negativa mediante la svalutazione. La svalutazione aumenta la produzione per l'export e riavvia il ciclo economico verso la crescita economica. L'effetto della svalutazione sulla crescita economica di un paese è fortemente dipendente dalla presenza o meno dei beni di esportazione nella struttura produttiva nazionale.
Svantaggi dell'uscita dall'Euro
  • Inflazione. L'uscita dall'Eurozona comporta un rapido innalzamento dell'inflazione dei prezzi e dei tassi di interesse. La crescita dei prezzi e dei tassi di interesse potrebbe essere molto alta penalizzando fortemente il potere di acquisto di consumatori e famiglie, il costo degli investimenti e dei finanziamenti delle imprese, nonché il costo del finanziamento per le famiglie (es. mutuo a tasso variabile).
  • Crescita indebitamento pubblico. In caso di rialzo dei tassi di interesse post-svalutazione diventa più difficile collocare i titoli di stato senza aumentare anche il loro rendimento. L'aumento del rendimento dei titoli pubblici comporta, indirettamente, la crescita del debito pubblico nazionale. Ciò accade soprattutto nella fase iniziale, post svalutazione, e si attenua nel tempo quando il sistema economico si avvia verso una fase di crescita economica trainata soprattutto dall'export.
  • Rincaro carburanti ed energia. La svalutazione rende più competitive le esportazioni aumentando la produzione/occupazione nazionale ma causa anche un aumento del prezzo di acquisto dei beni importati, in particolar modo dell'import delle risorse energetiche, delle materie prime (es. petrolio) e dei fattori produttivi.
  • Svalutazione competitiva. Tra i paesi fuori dall'Euro potrebbe innescarsi una corsa alla svalutazione per ottenere i vantaggi a scapito degli altri paesi. Queste politiche causano effetti positivi di breve periodo ma anche conseguenze devastanti nel lungo periodo per gli effetti destabilizzanti sul mercato internazionale.
  • Struttura produttiva. La svalutazione innesca la crescita economica nei sistemi economici con una struttura produttiva di esportazione. Viceversa, nei sistemi produttivi caratterizzati da un basso livello di export la svalutazione non ha alcun effetto sulla crescita economica, in quest'ultimo caso prevalgono soprattutto gli effetti economici negativi post-svalutazione ( inflazione dei prezzi ) dovuti al rincaro del valore dell'importazione delle materie prime (es. petrolio). Ad esempio, in un paese come la Grecia la svalutazione non influenzerebbe la crescita poiché i beni di esportazione caratterizzano soltanto una minima parte della produzione greca. La Grecia, inoltre, è già una delle principali mete turistiche internazionali e l'eventuale svalutazione della Dracma non aumenterebbe più di tanto gli attuali flussi turistici dall'estero.
  • Rivalutazione del tasso di cambio. Anche i paesi forti della zona Euro ( es. Germania ) sarebbero penalizzati dall'uscita dall'Euro poiché ciò comporterebbe il ritorno alla propria valuta nazionale e ad una immediata rivalutazione del tasso di cambio della valuta nazionale con conseguente diminuzione delle esportazioni. In altri termini, il prezzo di vendita sui mercati internazionali delle merci tedesche sarebbe più alto in caso di ritorno della Germania alla valuta nazionale ( Marco tedesco ) rispetto a quello della zona Euro. L'attuale tasso di cambio europeo, invece, è la risultate di tutte le economie europee, sia di quelle deboli e sia di quelle forti.



8 commenti:

  1. Interessante ed utile sintesi, dovrebbero organizzare dibattiti televisivi mettendo a confronto economisti di diverso parere.

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  2. Pierluigi Carnicelli10:24


    1
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    A prescindere dalle opinioni pro o contro l'Euro, è positivo che se ne cominci a parlare sempre di più. E' fondamentale analizzare i vantaggi e gli effetti negativi che l'Euro dal 2002 ad oggi ha portato all'economia e alla società italiana.
    Personalmente, faccio fatica a trovare dei vantaggi, mentre la lista dei disastri è veramente lunga, soprattutto per un Paese come l'Italia, che con il potenziale e le risorse a disposizione dovrebbe trovarsi in ben altra situazione. 

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    1. ecco come FARE.
      Senza chiedere permessi e senza "trattare" con nessun BOIA della eurozomna criminale...

      https://www.facebook.com/events/1427733774110898/?fref=ts

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  3. falco trei11:37


    prima di uscire dall'euro dobbiamo riprenderci quello che ci hanno tolto......

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  4. Non vedo in che modo visto come siamo ridotti.

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  5. Ottimo riassunto...
    Argomenti ripresi d astudi e pubblicazioni e report ormai noti e stranoti da alme no 10-20-30 anni ad economisti avveduti e NON venduti al potere inumano di banche e finanza...

    Che posso dire...?

    O passiamo ad usare le ARMI, oppure la "bancocrazia" mndiale ci massacrerà tutti assieme ai nostri figli.

    Ma nesuno sembra disposto a capirlo DAVVERO, come FATTO. Oramai evidente!
    Tutti credono si tratti di un film... che resta, negli esiti, al di là dello "schermo"... invece che ucciderci come IN EFFETTI AVVIENE!

    SE le "vittime" non fannoo nulla per sottrarsi al carnefice...
    allora HA RAGIONE IL CARNEFICE.

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    1. Quella da te linkata è una ipotesi seria da valutare , ma prima, per una questione di metodo corretto democratico, andrebbe informata tutta la base, come si è fatto sulla legge elettorale, sulle varie opinioni ed opzioni in campo nel dibattito tra economisti di varia estrazione in modo che possa scegliere con un minimo di informazione in modo critico e consapevole e poi passare ad una votazione sui modi. Ma qui entra in ballo la solita questione di come porre la questione ai nostri parlamentari e a Grillo in modo che si crei una piattaforma ufficiale attraverso la quyale tutta la base possa esprimersi .

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  6. Complimenti un resoconto molto utile da centellinare e rileggersi con calma.

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